Si può procedere al licenziamento di un lavoratore dipendente solo quando non si possa fare altrimenti. Ciò vale per i licenziamenti per giusta causa, per quelli per giustificato motivo soggettivo e per quelli per giustificato motivo oggettivo.

Nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia quando il datore di lavoro è “costretto” a licenziare il dipendente per sopraggiunte difficoltà economiche, il datore di lavoro è tenuto a provare le obbiettive difficoltà economiche che hanno determinato la necessità del licenziamento. Ma le oggettive difficoltà in cui verserebbe l’impresa da sole non bastano a giustificare il licenziamento del lavoratore. Il datore, infatti, deve, prima di licenziare il proprio dipendente, adempiere al c.d. obbligo di repechage, ossia tentare il “ripescaggio” del lavoratore da licenziare.
E’ infatti obbligo del datore di lavoro porre in essere le più opportune iniziative volte ad evitare la risoluzione del rapporto di lavoro con il proprio dipendente la cui unità produttiva sia stata soppressa o le cui mansioni siano divenute non più utili al perseguimento dell’oggetto sociale dell’impresa.
Tale obbligo deve esplicarsi nell’individuazione di mansioni a cui il lavoratore possa essere adibito, seppur diverse da quelle per le quali era stato assunto.
Una volta individuate tali mansioni, il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore delle difficoltà produttive e quindi proporre al dipendente il mutamento delle mansioni. Solo in caso di rifiuto del lavoratore a mutare le proprie mansioni il datore di lavoro può legittimamente procedere alla risoluzione del rapporto contrattuale intercorrente con il dipendente.

La giurisprudenza di legittimità, ormai da tempo, ritiene che il datore di lavoro, qualora non possa adibire il lavoratore a mansioni equivalenti seppur diverse da quelle precedentemente svolte, deve valutare la possibilità di adibire lo stesso a mansioni inferiori quand’anche ciò possa comportare una riduzione della retribuzione con il c.d. “patto di dequalificazione” (ex multis cfr. Cass. Civ. 2013/6 e Cass. Civ. 2012/18025).
In particolare la Cassazione ha avuto modo di precisare che: “… l’imprenditore ha l’onere di dimostrare di avere offerto al lavoratore tale opportunità di prosecuzione del rapporto in compiti professionalmente inferiori, esistenti e comunque utili per l’impresa e che questa offerta non è stata accettata” (Cfr. Cass. Civ. 2012/7515 e Cass. Civ. 2009/6552). Ed ancora, in altri termini: “il datore di lavoro è gravato dall’onere di provare, con riferimento alla capacità professionale del lavoratore e all’organizzazione aziendale esistente al momento del recesso, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che il medesimo svolgeva, giustificandosi il recesso solo come extrema ratio” (Cfr. Cass. Civ. 2009/11720)
Il “ripescaggio” anche in mansioni inferiori è un vero e proprio obbligo che deve essere certamente valorizzato a fronte della delicata situazione economica e sociale in cui versano l’Italia e l’Europa con il drammatico problema della disoccupazione.
Avv. Federico Depetris

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